La stanchezza intrinseca dell’espatriato

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Imparare una lingua straniera costa fatica. E se pensiamo alla fase iniziale di un espatrio – quella in cui uno annaspa furiosamente per, contemporaneamente, imparare la lingua, cercare casa, cercare lavoro e magari crearsi un giro di amicizie o una parvenza di vita sociale – ecco, ho scritto la banalità dell’anno. Chi si è trasferito in un Paese estero da meno di due-tre anni è, mentalmente, sempre stanco.

Cosa succede dopo? La stanchezza passa come per magia? Ci pensavo ieri sera, prima di addormentarmi, e la risposta che mi sono data è un secco no. E non è solo stanchezza: parlare male o maluccio la lingua locale comporta sforzo, ma anche un vago senso di inadeguatezza, di partire sempre svantaggiato, una sorta di pesante palla al piede che ci trasciniamo dietro. Questa stanchezza non scompare un bel giorno per magia, nessuno ti accende la luce di punto in bianco. La paura passa piano piano, su binari paralleli alla competenza linguistica, che si immagina crescere costantemente col passare del tempo. Io, dopo più di tre anni di permanenza a Vienna, e giuro che il Tedesco lo stavo imparando alla velocità della luce, ancora scrivevo lettere come questa ad Italians. L’incipit (“è la sera di Ferragosto, fuori un tempo da lupi, qualche linea di febbre – una di quelle serate in cui tutto quello che voglio è ascoltare un po’ di italiano”) è probabilmente incomprensibile a chi non viva in pianta stabile in un Paese in cui si parla una lingua diversa dalla sua lingua madre.

Quanto ci vuole perché passi? Un paio d’anni? Un decennio? Una vita? Non ho una risposta precisa a questa domanda, anche perché il senso di fastidio non dipende solo dalla difficoltà connaturata alla lingua straniera in questione (che so, presumo che ascoltare Spagnolo tutto il giorno sia meno alienante che ascoltare Tedesco), ma posso raccontare un paio di aneddoti che mi riguardano.

I primi anni a Vienna, linguisticamente parlando, sono stati durissimi. A partire dallo shock delGiorno 1 quando accesi il computer in ufficio e mi trovai davanti Windows 95 tutto in Tedesco. Per mesi chiamai amici in Italia al telefono facendo domande ridicole

“Marco! Dove trovo i menù per formattare le celle in Excel?”

Marco, cervello fino al quale avevo spiegato il dramma in una lunga email, non rispondeva con pernacchie e sberleffi, ma con indicazioni molto operative

“Allora, terzo menù da sinistra, quarta riga dall’alto”.

A mia gratitudine non conosceva limiti.

La sensazione di essere un pesce rosso che guarda fuori dalla sua boccia era quasi tangibile, specie quando mi ritrovavo attorno ad un tavolino con un paio d colleghi per una pausa caffè, o a pranzo. Spesso annuivo in silenzio quando mi rivolgevano la parola, facendo solo finta di aver capito. O chiedere a Luise di chiamare lei a nome mio la Wien Energie per l’allacciamento della corrente; e i sudori freddi che mi assalivano ogni volta che squillava il telefono sulla scrivania.

Nell’azienda in cui lavoravo i primi anni avevo però un vantaggio, che mitigava questa sensazione di spaesamento. Era un’azienda italiana e la mia posizione richiedeva di comunicare tantissimo con la casa madre. Cosa che io facevo in scioltezza, spesso e volentieri anche per i colleghi che parlavano male l’Italiano. Insomma, faticavo col Tedesco ma mi toglievo anche delle belle soddisfazioni. E questo bilanciare le competenza linguistiche, a suo modo, confortava.

Neanche quattro anni dopo cambiai lavoro. Accettai, come grande sfida, di passare alle vendite come responsabile di zona per una casa automobilistica americana. Questa cosa del responsabile di zona mi puzzava un po’ sin dall’inizio, ma nell’automotive pare che non si possa fare carriera senza fare un giro nelle vendite, e mi dissi

“Bon, proviamo, uno o due anni e poi torno al mio amato marketing”.

In fondo avevo fatto diversi colloqui in Tedesco, alcuni risultati persino in offerte di lavoro. E questi mi avevano assunta ben consapevoli che io non fossi madrelingua (e che parlassi perfettamente l’Italiano non gli interessava affatto).

“Se il mio livello di Tedesco sta bene a loro, figurati se non basta anche a me”.

Dopo aver firmato il contratto, ricordo, mi sembrava di aver ricevuto una medaglia al valore, di aver raggiunto una pietra miliare.

“Guarda come sono stata brava! Dopo un paio d’anni qui già competo sul mercato del lavoro con i madrelingua! Son soddisfazioni.”

Mi sbagliavo. O almeno avevo sottovalutato le difficoltà alle quali sarei andata incontro sul campo.

La zona che mi assegnarono era la Stiria, e mi andò anche bene, che in massimo tre-quattro ore di macchina ero di nuovo a casa mia a Vienna. In Stiria, però, parlano un dialettaccio difficilissimo da capire – suona anche simpatico, ma in pratica non parlano, abbaiano. E nonostante i miei concessionari fossero davvero delle brave persone, e si sforzassero gentilmente di parlare Tedesco e non dialetto con me, non sempre la conversazione era facile e immediata. E io sempre lì ad annaspare, per non far sospettare all’interlocutore che, davvero, non ci avevo capito un tubo. Quando si parla male una lingua, infatti, si corre sempre un po’ il rischio di passare per deficienti. E per un responsabile di zona, che ha spesso direttive sgradevoli da impartire ai concessionari, passare per deficiente non è il massimo. Aggiungiamo poi il fatto che io ero la prima donna responsabile di zona in Austria (non scherzo, ci fecero su addirittura un comunicato stampa) e che lavoravo nell’after sales. Non visitavo quindi solo concessionari di vendita, con le vetrine luccicanti, il buon odore di auto nuova, e il responsabile con il quale parlare in giacca e cravatta. Io visitavo anche officine scalcagnate in paesucoli sperduti, e parlavo col proprietario, che mi allungava la mano da stringere dopo essersela strofinata sommariamente sulla salopette sporca di grasso. Quelli con le saponette lerce nel bagno di cui parlavo ieri. Non erano tutti accomodanti quando si trovavano di fronte una donna.

Girare tutta la settimana per la Stiria e tornare a casa solo i fine settimana non mi piaceva per niente. Mentre i colleghi inneggiavano alla favolosa libertà della vita sulla strada, a me mancavano la scrivania, la piantina vicino al telefono, la cornice con la foto, la pausa caffè, i colleghi. Io mi sentivo assolutamente persa. Ero inoltre costretta a comunicare tantissimo per telefono, e anche se non mi pigliava più il panico, parlare al telefono ancora richiedeva uno sforzo notevole.

Un mesetto dopo aver iniziato festeggiai il mio compleanno in un pub viennese, e invitai i nuovi colleghi. I quali colleghi, invero persone simpaticissime, mi regalarono un libro di Asterix in dialetto stiriano e un vocabolario tascabile Austriaco-Stiriano. Ricordo ancora che quando scartai il pacchetto l’intero locale scoppiò in una risata di pancia. A me salirono le lacrime agli occhi. Non se ne accorse nessuno, ma in quel preciso istante decisi che avrei lasciato quel lavoro alla prima occasione decente. Ci vollero altri due mesi, che a me sembrarono duemila.

Quando poco dopo iniziai in un’altra azienda, non ebbi più difficoltà insormontabili con la lingua. Perché allora in quell’occasione toppai tanto clamorosamente?

Semplicemente perché lavorare in una lingua straniera è e rimane una fonte di stress. E se il lavoro ti piace, se con i colleghi ti trovi bene, se hai modo di controbilanciare alcuni patemi, la vita ti sorride. Magari arrivi a casa la sera stravolto e per disperazione ti guardi Un medico in famiglia, che con la tv via cavo prendi solo Rai1 e non hai scelta. Magari ogni tanto ti concedi la serata di chiacchiera tra Italiani, magari fai due coccole al gatto. Ma se il lavoro non ti piace, ti senti sola, il tuo gatto è a duecento chilometri, e stasera dormirai nell’ennesimo albergo… io mi addormentavo tutte le sere piangendo. E non era giusto.

Oggi, e da quell’episodio sono passati sette anni, sono convinta sarei in grado di gestire quel lavoro. Non mi piacerebbe, ma resisterei sicuramente ben oltre i tre mesi di allora. Si è accesa la luce? I patemi sono finiti per sempre?

Purtroppo no. Ci sono ancora situazioni in cui il Tedesco mi causa difficoltà. Sono diventate molto rare ma non sono scomparse. L’esempio più classico: i miei amici più cari lo sanno, altri ancora si stupiscono, ma quando la sera siamo in un locale affollato, magari dopo uno o due bicchieri di vino, quando dopo una cert’ora alzano la musica di sottofondo e il vociare si fa sempre più confuso… ecco, io saluto tutti e me ne torno a casa. Semplicemente non ce la faccio più a seguire la conversazione, o mi costa troppa fatica. E in Italiano – sicuro come la morte – manco mi sarei accorta che la musica è diventata più forte.