La Finta Umbria – Epilogo

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Molti ci hanno vissuto, moltissimi sognano di andarci a vivere un giorno. E tutti conosciamo almeno un paio di anime pie che nella Finta Umbria ancora ci abitano. Non lasciatevi abbindolare.

Alcuni dettagli della Finta Umbria sono infatti romantici solo sulla carta. Il nostro vicino di casa Vittorio, per esempio, traslocò un paio di mesi dopo di noi e per un paio di settimane girò con un sorriso ebete in faccia:

“Ah, la campagna! E gli uccellini in giardino che la mattina ti svegliano cinguettano! Ah, non c’é niente di più naturale…”

Dopo circa un mesetto, stravolto dalla mancanza di sonno, Vittorio aveva cambiato registro:

“Porcaccia loro questi uccellacci, non stanno mai zitti un attimo!”

Passato un trimestre Vittorio si procurò una pistola ad aria compressa. La mattina ci salutava sventolando la mano dal balcone della camera da letto, dove in mutande e maglietta passava ore a prendere di mira i passeri.

Il dramma vero della Finta Umbria è che nessuno se la riesce a godere davvero.

Papà lavorava in un ufficio ai Parioli, usciva la mattina prestissimo e tornava a casa che io già dormivo. Praticamente una vita da psicopatico affetto da DDI (Disturbo Dissociativo dell’Identità); la prima personalità, la notte e i finesettimana, quella del marito e papà finto umbro. La seconda, solo ed esclusivamente in orario d’ufficio, il professionista rampante. Senza mai il benché minimo contatto.

Chi non ha mai vissuto nella Finta Umbria non può capire quanto sia difficile combinare le due cose. Perché nella Finta Umbria devi prendere l’auto anche solo per comprare un litro di latte, e tutte le decisioni vengono prese considerando un fattore aggiuntivo rispetto a chi vive in città: quanto tempo dovrò trascorrere in macchina per farlo?

E magari per un goccio di latte nel caffè non vale la pena. O per una pizza estemporanea con i colleghi dopo l’ufficio. O un cinemino dopo cena.

Una volta finite le scuole medie in paese, mi trovai anch’io catapultata nella schizofrenia da pendolare. Che a Formello le scuole superiori non c’erano e per frequentare un liceo decente bisognava alzarsi alle 5:45 per prendere i treno. E per svegliarsi alle 5:45 bisogna andare a dormire al più tardi alle  22:00. O ancora meglio – a voler credere a mamma – alle 21:00. E questa è la radice vera del problema: mamma aveva il coltello dalla parte del manico.

Ho trascorso la mia giovinezza facendo finta di aver visto la fine dei film della sera prima. O di aver visto programmi in seconda serata. Ricordo ancora lo stress di star dietro a Indietro Tutta! di Renzo Arbore, che tutti i compagni di classe seguivano con entusiasmo. Conoscevo ogni battuta a memoria, senza averne mai visto manco la sigla iniziale. Una performance, in tempi pre-Youtube, di cui vado ancora un pochettino fiera.

Gli anni del liceo sono stati i più duri. Perché, ammettiamolo, fino alla fine delle scuole medie i bambini nella Finta Umbria ci sguazzano. Lo scuolabus ci riportava a casa in dieci minuti, il giardino era pieno di ragni e formiche, in estate poi la piscina da sola bastava e avanzava a riempire le giornate. E le mamme finte umbre erano sempre disposte a portarci da un’amichetta per una sessione di Barbie o un giro su un’altalena diversa.

Iniziato il liceo la disponibilità della mamma ad accompagnarmi avanti e indietro non diminuì, anzi, i kilometri che macinava crebbero a dismisura. Non crediate infatti che mamma fosse l’unica a godersela davvero, ‘sta Finta Umbria. No, perché lei era sempre in macchina, intenta a scarrozzare familiari avanti e indietro, macinando kilometri e kilometri di strada in ogni possibile direzione per la minima commisisone. È questa la somma fregatura della Finta Umbria: uno ci si trasferisce nella pia illusione di campare all’aria aperta, e si ritrova poi sempre chiuso in macchina.

Mi viene in mente ora che mamma, una volta, una soddisfazione estremamente umbra riuscì a levarsela. Aveva infatti un ammiratore autoctono, un contadino, che le regalò un camion di letame. Non sto scherzando, il tipo arrivò baldanzoso un pomeriggio e scaricò il cadeau proprio davanti al garage. Non sono però troppo sicura che questo fosse esattamente la scena bucolica che mamma aveva in mente nel ’77, mentre incartava le nostre cose nel vecchio appartamentino urbano.

Il mio principale problema era che, rispetto ai compagni di classe, io ero l’unica ad aver bisogno di un’ora e mezza di viaggio. E magari per una festa di compleanno ci stava pure, ma per andarsi a prendere un gelato pomeridiano con l’amichetta del cuore pareva eccessivo persino a me e nemmeno lo chiedevo. Cinque anni di liceo e non ho mai avuto un’amica che venisse a fare i compiti da me, a trascorrere un sabato pomeriggio insieme, un sleep-over manco sapevo cosa fosse. La sensazione di reclusione era talmente forte da poterla tagliare col coltello.

E non è che mi potessi attaccare al telefono per rimanere aggiornata sui pettegolezzi pomeridiani che le amiche facevano leccando il gelato. Perché la Finta Umbria è abbastanza vicina alla città da avere lo stesso prefisso, ma troppo lontana per essere lo stesso distretto telefonico. E in tempi pre-cellulari le chiamate su Roma erano tutte extraurbane. Porca paletta. Dopo cinque minuti di conversazione, immancabilmente, mamma alzava la cornetta dal piano di sotto e mi intimava di smettere di blaterare. Uff.

Le cose migliorarono un poco al raggiungimento della maggiore età. Quando cominciai l’università a 18 anni avevo un’automobile mia e mi ero finalmente emancipata dall’accompagno materno. Uscivo autonomamente la mattina, sempre prima delle sette per battere il traffico, e andavo a lezione. La superstrada, che anni prima avevamo benedetto in tutte le lingue, 15 anni dopo era diventata un bordello ingolfato di traffico che metteva paura. L’università che frequentavo era accanto al Colosseo. Due ore ad andare e due a tornare. Praticamente ero sempre in macchina, e una volta tornata a casa mai avrei avuto l’energia per uscire di nuovo.

Se durante il liceo mi ero sentita una schizofrenica, all’università mi trasformai in una vagabonda. Il contenuto standard del mio bagagliaio in un qualsiasi giorno infrasettimanale pareva quello di una nomade di professione: libri e blocchi di appunti per le lezioni; libri e blocchi di appunti per gli esami in preparazione; borsone per la palestra. Verso il finesettimana aggiungevo make-up, phon, spazzole e prodotti vari per i capelli, più uno o due cambi di abiti per uscire la sera con gli amici. Uno o due perché magari ancora non sapevo se si andava a mangiare la pizza, in discoteca, o in un locale carino. Più avanti imparai a lasciare sempre un cambio d’abiti in macchina. Sia mai presentami con l’outfit sbagliato ad un invito espemporaneo.

Ora che sono più di dieci anni che vivo in città – super centrale e non ho nemmeno più la macchina – ancora mi commuovo quando dopo il lavoro posso andare a casa a farmi una doccia e cambiarmi prima di uscire la sera. Addirittura qualche giorno fa mi sono accorta che la mia patente di guida è scaduta da due anni… mai servita! Ho riso da sola come una scema!

 

PS Ai tempi del liceo, una volta l’anno, per festeggiare la fine della scuola, i compagni di classe venivano davvero a casa nostra. Presumo si preparassero per settimane alla gita fuori porta con lacorriera. Sguazzavamo in piscina come ranocchie, mangiavamo come cavallette, dormivamo con il sacco a pelo in giardino sotto le stelle, e due decenni dopo ho scoperto che quacuno ancora se le ricorda, quelle festicciole. Son soddisfazioni. Piccine, eh, ma sono un cuor contento, io!