Dimmi cosa rileggi e ti dirò chi sei
Fine febbraio è sempre il periodo più duro in questo orrendo clima asburgico.
Lo ripeto spesso, quello che mi frega dell’inverno mitteleuropeo non sono le temperature assolute – che una si attrezza nel guardaroba – ma il fatto che l’inverno duri più di sei mesi. La prima neve ad ottobre ancora riesce ad entusiasmarmi, a novembre aprono i primi banchetti che vendono vin brûlé e mi illudo che l’inverno abbia quasi un suo perché. Dicembre poi va giù che è un piacere, l’Avvento in Austria è una roba seria. A gennaio inizia a salirmi un briciolo di malinconia. Arrivata a febbraio comincio, francamente, a non poterne più.
Vivo qui la una vita, ma – chissà perché – non riesco a levarmi di testa che una volta annusata la primavera, non possa mancare più molto. Anni fa, addirittura, non appena la temperatura accennava a salire sopra lo zero, mi affrettavo a tirare fuori dagli scatoloni scarpe e vestiti leggeri. Ancora ricordo una festa di compleanno organizzata a fine marzo, alla quale arrivai surgelata, con indosso una gonnellina di seta e le ballerine inzaccherate. Fuori c’era mezzo metro di neve.
L’inverno, oramai, non mi frega più, e le ballerine restano incartate fino ai primi di maggio. Non vuol dire che non ci soffra.
Con il tempo ho imparato a sfogare la voglia di primavera non più esclusivamente con l’abbigliamento, ma includendo metodi un poco più trasversali. La maglia di lana sotto alla camicetta, per esempio, ben rimboccata dentro alle mutande. Non si vede ma tiene caldo, così posso smettere di indossare quei golf pelosissimi con su le renne. O una rapida grigliata sotto alla lampada abbronzante, che – precisa uguale la sauna – mi regala la fugace impressione che non avrò mai più freddo in vita mia. E, fatalmente, una botta d’ordine in casa.
Domenica scorsa nevicava e ho sentito il bisogno di fare ordine da qualche parte e mi sono scelta un bersaglio diverso dal solito armadio delle lenzuola e asciugamani: la libreria.
Ora, io sono cresciuta in una casa in cui tutti leggono come pazzi. I libri sono dappertutto: ogni parete è coperta di mensole strabordanti, libri negli armadi, nel sottoscala, nei ripostigli, sotto al letto. La regola ferrea di mamma e papà è infatti non si buttano via i libri. Mamma ha addirittura serie difficoltà a buttare via le riviste. E la mela non cade mai lontano dall’albero: quando sono venuta a vivere a Vienna avevo con me otto scatoloni. Quattro pieni di vestiti primaverili, e quattro pieni dei miei libri preferiti, dai quali mi pareva impossibile separarmi. Così ho cominciato la mia collezione personale.
Con il passare degli anni ho però capito una cosa, una cosa molto triste: con il ritmo a cui compro e leggo libri io, è impossibile conservarli tutti. Una banalissima questione di spazio. Ho dovuto quindi prendere una decisione drastica. La vita è troppo corta per bere vini cattivi, diceva qualcuno. Bene, per me gli scaffali sono troppo pochi per conservare libri che sono sicura di non voler mai più rileggere. E Il Codice Da Vinci o Fifty Shades of Gray non possono avere alcuna pretesa di star lì a rubarmi spazio.
Non che poi li butti via, per carità, non sono una figlia tanto degenere. I libri di cui voglio sbarazzarmi, semplicemente, li regalo ad amici, o li porto in negozio e li lascio in bella vista in una scatola con su scritto free books (Fifty Shades è ancora lì che aspetta), e quelli che proprio non ha voluto nessuno, li porto ad un punto di scambio, a pochi isolati, dove sul marciapiede c’è uno scaffale di ferro battuto in cui chi vuole può deporre e/o portar via cosa vuole. Il problema di questa soluzione estrema è che – l’avrete immaginato – me ne torno sempre a casa con una bracciata di libri, il triplo di quanto avessi portato io. E siccome sono libri di scarto di qualcun altro, raramente trovo qualcosa di valido. Il cerchio si chiude. Maledetto.
L’ultima botta di ordine vero in libreria deve risalire a diversi anni fa, e i libri erano tutti mescolati. Dopo vari tentativi falliti di ordinare una mensola dopo l’altra, mi sono decisa a tirarli giù tutti quanti, spolverarli, e organizzarli in pile più o meno alte, più o meno pericolanti, in giro per il soggiorno. Per poi risistemarli in rigoroso ordine geografico. I nostri libri sono infatti meticolosamente ordinati per Paese di provenienza dell’autore.
Più alcune piccole sezioni apposta per i fumetti, i libri di viaggi, grammatiche e vocabolari vari, l’arte e il design. I libri di cucina no. Loro hanno il loro scaffale apposta.
Da quest’esercizio sono emerse alcune constatazioni sorprendenti. Cioè che la maggior parte dei miei libri ricada in pochissime categorie: quattro mensole per l’Italia, due per l’UK (o tre, contando anche la mensola del fantasy), due di USA, una ciascuno per Sudamerica, Giappone e Mitteleuropa. Ma solo un Austriaco, Joseph Roth, La Leggenda del Santo Bevitore, in Italiano.
Per gli altri Paesi è davvero questione di briciole. Più Irlandesi (2) che australiani (1, pure brutto, ma lo tengo per il piacere di sistemarlo in fondo a destra); più Francesi (2) che Iraniani (1); tanti Cinesi (3) quanti Scandinavi. E questo è quanto. Ci sono rimasta davvero male.
Più buffo è stato invece scoprire libri in duplice/triplice copia, ma in lingue diverse. Sinonimo di due cose: da un lato – dato che questa libreria è il risultato della fusione di due – che il Fidanzato Asburgico ed io siamo proprio fatti l’uno per l’altra! E anche che i pochi amici che mi regalano regolarmente libri mi conoscono davvero bene. Una sensazione confortante.
Palma d’oro per Haruki Murakami, A Sud del Confine, a Ovest del Sole, in Italiano, Tedesco e Inglese. Mi ha fatto quasi venir voglia di comprarne una copia in Giapponese!
In duplice copia diverse opere di Andrea Camilleri, di cui il mondo di lingua tedesca va letteralmente pazzo. Il primo in ordine temporale, La Concessione Del Telefono, in Tedesco l’avevo comprato io per farlo assolutamente leggere al Fidanzato Asburgico. Ha funzionato, e non ha più smesso.
Il primo romanzo di Stephen King, Carrie, in Tedesco e in Inglese è lì a ricordarci che leggere è un piacere, e a volte ci vogliono anche le boiate.
Menzione d’onore a Umberto Eco, Il Nome della Rosa, in tedesco. E alla ritrovata collezione di Stefano Benni. È venuta su con me in uno dei quattro scatoloni originali e me l’ero completamente scordato. Stasera riattacco Il Bar Sotto il Mare.