Di coppie della stessa età, grunge e funghi atomici
L’altra sera il Fidanzato Asburgico ed io giocavamo ad un giochino che ci piace un sacco: guardare video su youtube alternandoci alla tastiera. Lo facciamo spesso, e altrettanto spesso iniziamo per caso. Che so, la sera lui mi fa guardare qualcosa che ha scovato nel pomeriggio – un nuovo video musicale, due procioni che giocano con un secchiello, uno spot televisivo particolarmente intelligente che non passa in Austria… tutto fa brodo. Verso la fine del video a me viene un’idea sulla falsariga e cerco un altro video. Poi lui, poi di nuovo io… avete capito, no? Il giochino non ha un nome preciso ma lo fanno in tanti.
L’altra sera eravamo scivolati nel trip migliore voce maschile di tutti i tempi. Dopo nemmeno tre quarti d’ora, ci siamo messi d’accordo: Bono Vox, Freddy Mercury, Sting. Poi abbiamo attaccato con le voci femminili (e ve lo dico subito, abbiamo incoronato Adele). A un certo punto io ho suonato The Cranberries – Zombie. Non avevo molta speranza che Dolores O’Riordan entrasse nel nostro olimpo privato, ma all’epoca avevo vent’anni e la sua voce è sicuramente una di quelle che, a quell’età, ti entrano sotto la pelle. Avevo probabilmente solo voglia di riascoltarla.
Il ritornello l’abbiamo e cantato all’unisono
In your head, in your head,
Zombie, zombie, zombie,
Hey, hey, hey. What’s in your head,
In your head,
Zombie, zombie, zombie
Quando poi è iniziato il gorgheggio
Hey, hey, hey, hey, oh, oh, oh,
Oh, oh, oh, oh, hey, oh, ya, ya-a…
ci siamo resi conto che non solo sapevamo a memoria ogni nota, conoscevamo anche ogni incrinatura nella voce, ogni minuscolo dettaglio. Più che saperla a memoria, noi questa canzone l’abbiamo interiorizzata.
Poi ci abbiamo ragionato su un attimo. Come mai questo brano ci unisce tanto? Semplice: perché è del 1994, e nel 1994 io avevo vent’anni. Il Fidanzato Asburgico ventidue. In sostanza la stessa età. Ci siamo entrambi presi il grunge in piena faccia. Il Fidanzato Asburgico ed io all’epoca vivevano in Paesi diversi, parlavamo lingue diverse, facevamo cose diverse. Ma ascoltavamo la stessa musica, portavamo gli stessi Dr. Martens neri, gli stessi jeans con l’orlo sfondato, le stesse camicie da boscaiolo. È una bella sensazione.
Come termine di paragone ho ripensato a tanti anni fa, quando stavo insieme Mr. Right, che aveva sei anni meno di me. E non ci sembrava davvero un’enormità, in pratica avevamo recuperato il mio gap dell’averci messo nove anni a laurearmi. Anzi, scherzavamo molto volentieri sul fatto di essere tanto alla moda: Madonna stava ancora con Guy Ritchie, Demi Moore con Ashton Kutcher. Invece regolarmente sbattevamo il muso su differenze insormontabili. Non di opinione, per carità, ma di pelle, di pancia, di come alcune cose ci intenerissero o meno, commuovessero, intristissero, spaventassero. Ed erano, a ripensarci, sempre e solo fatti di cronaca poco recenti, risalenti a quel periodo in cui io ero pischella e lui in fasce, o io adolescente e lui ancora bambino. Al periodo che non avevamo, per forza di cose, condiviso.
Quando è caduto il muro di Berlino, ad esempio, io avevo quindici anni, lui nove. Io lo vissi come il coronamento di un percorso lungo e faticoso – la guerra fredda – i cui strascichi io avevo vissuto sulla mia pelle. Per lui era piuttosto una formalità. Quando chiesi lumi mi spiegò
“Mah, era talmente evidente che sarebbe caduto!”
E aveva pure ragione.
Ora, non è che io la guerra fredda me la sia fatta in pieno, eh? I vicini di casa di papà, nella Brooklyn degli anni ’50, avevano il rifugio antiatomico in giardino, mica bruscolini. L’avrebbe avuto anche papà, in teoria, solo che erano in affitto e il proprietario non li lasciava scavare nel backyard.
Insomma, la paura della guerra atomica tra Russia e USA io l’ho avuta. Ricordo una mattina della primavera del 1986, avevo dodici anni, e in piena crisi da missili libici su Lampedusa un caccia militare sorvolò a quota inusualmente bassa il cortile delle scuole medie in cui io stavo giocando a pallavolo con i compagni di classe. Ci impietrimmo tutti, col naso per aria, e per una decina di secondi non volò una mosca, solo il fischio dei motori a reazione. Il pallone lo andammo a recuperare sotto alla siepe, nessuno si era accorto fosse rotolato via.
Più tardi a casa, papà e mamma mi consolarono con un buffetto quasi divertito. Loro avevano vissuto la crisi dei missili di Cuba, roba seria insomma, e Lampedusa gli faceva un baffo.
Due anni fa c’era Bio-Emma a cena da noi e guardammo un film in televisione (per chiarire, Bio-Emma è un’amica talmente intima che quando viene a cena si porta i pantaloni del pigiama, e insieme facciamo cose assolutamente insulse, come guardare la tv). Il film era The Day After, lo stesso che, leggenda metropolitana vuole, ha convinto Ronald Reagan a iniziare il processo di disarmamento. La prima metà del film è terrificante, con la tensione tra Russia e USA che cresce, raccontata in sottofondo da radio e telegiornali. Verso la metà del film il protagonista è in macchina e alla radio scatta in automatico l’Emergency Broadcast System – secondo me il momento più pauroso di tutto il film. Bio-Emma si voltò verso di noi e ci chiese come mai avessimo entrambi un faccino tanto sconvolto. Bio-Emma è nata a metà anni ’80, e quando vede una strada tutta scassata dice sembra Baghdad, mentre noi diciamo Beirut. Si chiama, credo, scontro generazionale.
Tempo fa parlavo di shock culturale, di comunicazione tra compatrioti, di condivisione, di cultura pop, volendo, che avvicinano le persone. Ecco, il Fidanzato Asburgico ed io condividiamo magari non un’educazione, ma certamente un’epoca (non solo le paure, ovviamente), e questo ci avvicina. Ci rende simili.
Per una coppia con due nazionalità diverse, che combatte ogni giorno anche semplicemente contro la barriera linguistica, scusate, ma non è poco.