Mama Bear, Papa Bear and… buon Natale!

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Le prime parole di Inglese che ho imparato in vita mia escono da una fiaba, la storia di Goldilocks e i tre orsetti:

„Mama bear, papa bear and little blue eyed baby bear“.

Ma non crediate che i miei genitori mi leggessero le fiabe in lingua originale, eh? Queste parole risalgono, sorprendentemente, all’italica tradizione natalizia di decorare l’albero l’8 dicembre, per smontarlo con un briciolo di magone il giorno della Befana.

Quando ero bambina avevamo un albero di Natale sintetico che era, retrospettivamente, bruttissimo. Stava in cantina tutto l’anno, schiacciato in un sacco nero della spazzatura, aveva dei rami cicciotti quanto i miei polpacci (che poi era difficilissimo attaccarci su i gancetti delle palline), la punta un po’ storta e un palo di legno che infilavamo in un bidone di metallo pieno di sassi, ricoperto di carta crespa verde o rossa.

Forse per compensare la plasticosità dell’albero, le palline erano invece tutte rigorosamente naturali. Vetro, legno, metallo, pasta di sale… tutto purché non di plastica. Ogni anno, poi, andavano comprate alcune palline nuove, e la trepidazione con cui io e mamma entravamo da Vertecchi, in Via della Croce, ai primi di dicembre è una cosa che ricordo ancora. Insieme al dispiacere di scoprire che la pallina meravigliosa che avevo scelto non era di vetro come sembrava ma di plasticaccia.

Col passare degli anni siamo diventati sempre più fondamentalisti su questa cosa, arrivando ad estremi vagamente ridicoli. Un anno decidemmo che le ghirlande argentate erano troppo sintetiche e passammo – io, mamma e nonna – due giorni a cucire pop-corn con ago e filo. Creammo le ghirlande più simpatiche e profumate della terra. Quell’albero lì, con i festoni di pop-corn e i biscotti bucaneve Doria (quelli tondi con le pennellate di glassa) appesi col nastrino, lo vedo ancora se chiudo gli occhi. Sarà stato il 1992.

Il rito di tirare fuori le palline, scartarle e commentarle, era talmente radicato che continua ancora oggi, nel mio soggiorno viennese. Quando sono andata a vivere da sola, infatti, io e mamma ci siamo divise le palline di Natale. È stato una trattativa lunga e un poco snervante.

Ogni pallina ha infatti una sua storia e proprio in questo risiede la magia del Natale. Ovviamente le più pregiate sono quelle più vecchie – che sia questa la provenienza del mio amore per modernariato e vintage?

Anni ’40-‘50
L’ornamento più vecchio in assoluto se l’è tenuto mamma. No, perché mia mamma, se glielo chiedessi, si strapperebbe il cuore dal petto per darmelo. Ma l’uccellino di vetro con la mollettina sotto e la codina di fili di seta della sua infanzia, quello no! Quello non l’ha mollato manco a coltellate.

Anni ‘60
Abbiamo invece diviso a metà le due serie di palline risalenti al primo Natale da sposati dei miei genitori: la famiglia di orsetti che vedete nella foto (appunto Mama Bear, Papa Bear and little blue eyed Baby Bear, e prego notare la finezza che il piccolino è davvero blu) più un elefantino rosa confetto dall’aria vagamente cinese. Sono parecchio scrostati, ma non importa, sono bellissimi. B-e-l-l-i-s-s-i-m-i.

Anni ‘70
Le paline risalenti a questo periodo non sono le più carine, e la maggior parte le ho dovute buttare via due anni fa, quando aprendo la scatola dove erano amorevolmente riposte, mi resi conto con orrore che l’anno prima, in un impeto di pigrizia, ci avevo buttato sopra i bastoncini di zucchero senza prima infilarli in un sacchetto di plastica di sicurezza. Erano tutti sciolti e avevano irrimediabilmente impiastrato il resto del contenuto della scatola. Così ho salutato un buon sei etti di ornamentini di legno e alcune palle di vetro. Se ne è salvata solo una, blu trasparente con sopra le stelline di porporina.

Anni ‘80
Queste sono invece bellissime, di provenienza Vertecchi, l’unico posto a Roma dove si trovavano quelle palle di vetro trasparente leggermente cangiante che sembrano bolle di sapone. E all’epoca, giuro, erano elegantissime. Un funghetto di vetro trasparente, il cigno con la molletta sotto. Ma soprattutto La Signora Topina, un coso di vetro soffiato altro una spanna e squisitamente dipinto, di mia proprietà fin dall’inizio, nonché il preferito del Fidanzato Asburgico. Ricordo perfettamente come ci misi sopra le zampe. Un anno – sarà stato metà anni ’80, invece che da Vertecchi per comprare le palline nuove andammo alla Rinascente, con anche la nonna. All’ingresso c’era un albero decorato, e sarà che io andavo alle elementari, ma era davvero gigantesco. Appesi c’erano questi topi di vetro, tutti diversi, uno più spettacolare dell’altro. Spettacolare era anche il prezzo, i più particolari superavano abbondantemente le 50.000 Lire, un’assurdità. Io non smettevo più di ammirarli e la nonna, in uno di quegli impeti di generosità che le capitavano spesso, mi disse di sceglierne uno. Ci misi un paio d’ore a decidermi, alla fine scelsi La Signora Topina con la sua salopette azzurra.

Anni ‘90
Una volta raggiunta l’età della ragione cominciai a perorare la causa dell’albero vero. Dopo una moderata resistenza da parte dei miei genitori – che nel frattempo il vecchio mostro sintetico aveva raggiunto livelli di schiacciamento imbarazzanti – per il Natale 1991 portammo a casa un bell’abete vivo, nel suo vaso gigantesco. L’idea era di piazzarlo poi in giardino e usarlo e riusarlo per i Natali dei secoli a venire. L’abete – chevvelodicoaffare – morì ancora prima di Capodanno. La pietosa scena si ripeté per un paio d’anni: compra l’albero vivo, piazzalo in soggiorno, aspetta e spera, buttalo via a gennaio. Fino a quando un anno mamma ed io non andammo a comprarlo con leggero ritardo e ne trovammo più solo uno invero bruttino, molto spoglio da un lato e con un ramone sproporzionato che spuntava da una parte. Pensammo “vabbuò, tanto a gennaio si butta”. Ecco, quell’abete lì è ancora vivo e vegeto, il ramone nel frattempo è diventato un tronco. Ogni anno ci vengono appesa sopra le palline più nuove.

Negli anni ’90, comunque, più che comprare nuove palline, scatenai la mia vena bricolage. Intorno ai vent’anni – chissà poi perché – fabbricai decine e decine di ornamenti in pasta di sale, amorevolmente pitturati con le tempere e spennellati di Vernidas. La maggior parte li ha tenuti mamma, io ho rivendicato solo due orsetti, parte di una serie di una ventina, uno con su la sciarpa rossa, l’altro col berretto da Babbo Natale.

Anni 2000
Quando sono andata a vivere da sola ho proseguito indisturbata la tradizione dell’albero, delle palline-ricordo e delle novità annuali. All’inizio, più che altro, mi limitavo a comprare palline ridicole. Quella a forma di carciofo, per esempio, la luce dei miei occhi. O il pavone con la coda vera, che ogni anno tiro fuori più acciaccata dalla sua scatola, tremando di paura che si sia spezzata, e invece resiste ancora. E il cigno blu, con la coda vintage, preso la prima volta che andai ad un mercatino di Natale qui a Vienna, quello di fronte alla Rathaus, e ancora mi divertivo a sorseggiare vino caldo annacquato con il sedere surgelato e gli occhi a fessura per il ventaccio gelato. La regina delle palline ridicole appartiene comunque al Fidanzato Asburgico, un regalo di mia mamma di qualche anno fa. La comprò sghignazzando dopo aver osservato il Fidanzato Asburgico sbafarsi una cena gigantesca la sera prima. È piuttosto grossa, a forma di hamburger.

Nel corso degli anni di permanenza a Vienna, forse un po’ per caso, è iniziata una tradizione molto romantica. Dato che racconto volentieri a destra e a manca del mio albero, delle palline vintage, della tradizione di avere un ornamento nuovo ogni anno, diversi amici mi hanno regalato cosine da appendere all’albero di Natale, scelte sempre con molto affetto.

Iniziò Federica, un’amica italiana che ho purtroppo perso di vista, regalandomi una palla gigante tutta arancione. La cosa più romantica? L’arancione non è il mio colore preferito, bensì quello di Federica. Ogni volta che guardo quella pallina, non posso fare a meno di pensare a lei. Luise, che si è trasferita nei Paesi Bassi qualche anno fa, mi ha regalato un paio di zoccoli olandesi di ceramica bianca pittati di azzurro. Non credo sia autentica ceramica di Delft, ma non importa. La pallina trasparente infagottata in un vestitino di pizzo equo e solidale è di provenienza Bio-Emma. La campanella rossa col batacchio dorato ce l’ha regalata Rossella l’anno scorso. Quest’anno è al posto d’onore, proprio in cima insieme a tutti gli uccellini di vetro.

L’albero di quest’anno è infatti già in piedi da domenica – manca più solo la pallina nuova.